Sezione TFF 2012: Festa Mobile
Categoria TFFOFF: Fuori
L’étoile du Jour è un dramma delicato e sfuggente, sospeso nelle atmosfere soffuse delle spiagge della Normandia. La pellicola mette in scena le disavventure di un piccolo circo e della sua troupe, in tournée attraverso i paesi del nord della Francia. Heroy (Tcheky Karyo), è il crudele e instabile direttore del circo, e vorrebbe sedurre Angèle (Beatrice Dalle), la ballerina, per strapparla dalle braccia del protagonista, il clown Elliot, impersonato da Denis Lavant (già protagonista al film festival nell’opera di Leos Carax, Holy Motors). La gelosia di Elliot sarà strumentalizzata dal mago Zephyr per tentare di sbarazzarsi del malvagio direttore, e di impossessarsi dei suoi beni, negli anni sottratti con l’astuzia e con l’inganno ai colleghi ignari.
Il film si articola non solo attorno alle disavventure del piccolo circo, ma anche alle numerose visioni che assillano il protagonista, perseguitato dal fantasma della sua coscienza (Iggy Pop), espressione della sua tragica follia.
Il film di Sophie Blondy si distingue per la potenza delle sue immagini e per l’intensità delle sequenze oniriche, manieristicamente psichedeliche. Il bianco e nero e le tonalità seppia delle visioni di Elliott si alternano alle atmosfere livide del circo in rovina, e a quelle sospese delle spiagge deserte spazzate dal vento. L’oceano, grigiastro e fangoso, sovrastato da un cielo bianco, è l’ideale confine dello spazio cinematografico, una sorta di porta verso il nulla, avvolta dal mistero.
Con questi elementi Sophie Blondy ha costruito un film di difficile definizione, a tratti delicato e a tratti kitsch; manieristico e surreale, è sospeso fra la magia dei sogni e gli orrori del dramma quotidiano. Diventa difficile orientarsi in questo universo fiabesco, e comprendere a cosa la regista stia puntando, quale sia il file rouge di quest’opera che fa confluire sperimentalismo e tradizione, dramma e comicità, eccesso barocco e delicato minimalismo.
Anche il palcoscenico del piccolo circo diventa un teatro di sperimentazione: gli spettacoli del gruppo si intervallano alla narrazione, e costituiscono quasi un’opera a parte, una ricercata myse en abyme che conferisce un ulteriore tratto di manierismo all’opera della Blondy. Lo spettacolo di danza di Angele ricorda Papillon d’amour di Prevost, e le riprese a camera fissa del palcoscenico del film rimandano al primo Melies – così come del resto tutto il film, che con la sua atmosfera magica strizza l’occhio al cinema francese delle origini, quando teatro, circo e cinema non erano così distanti come adesso. Anche la rivolta dei clown contro le ingerenze del malvagio direttore Heroy avviene sul palcoscenico del circo, in una ricercata finzione-reale che è vera nel film ma finta per noi spettatori, anche se su un piano narrativo diverso rispetto a quello della narrazione cinematografica.
Merita sicuramente di essere menzionato il lavoro sapiente nell’elaborazione della colonna sonora, ulteriore sintomo di un vertiginoso eclettismo: a canzoni tradizionali francesi si alternano le melodie soffuse della band post-rock dei Thundersticks, la voce sgraziata di Tom Waits, e ovviamente gli Stooges (con Steve Mackay).
Difficile da definire, allegoria ermetica e barocca, il film della Blondy è un’opera aperta, che sta allo spettatore completare e ricostruire.
Neri Marsili