(di Neri Marsili). Jérémy Gravayat, autore che per anni ha lavorato a fianco di Dominique Dubosc (Palestine Palestine, 2002) torna a casa a mani vuote dal TFF. Il suo Les Hommes Debout racconta il percorso storico, urbanistico e sociale del sobborgo operaio di Gerland, alla periferia di Lione. Con sguardo scientifico e liricità appassionante, Gravayat ricostruisce le vicende del quartiere operaio, dalle prime fabbriche di piombo fino allo squatting delle aree abbandonate. Un film che insiste sulla necessità benjaminiana di “spazzolare contropelo la storia” per riscoprirne i dettagli marginali e rivelatori. Una paziente raccolta delle testimonianze di una classe sociale emarginata che abita un quartiere periferico e ostile; una collezione di avanzi, di scarti, di residui urbani dai quale emerge un pezzo alla volta il puzzle completo della società francese del novecento, guardata al di là dello specchio, dalla parte degli emarginati. Immigrazione, proletariato urbano, sfruttamento, resistenza, inanità: colla alla mano, lo spettatore ricostruisce il passato e intravede il futuro di una città. E’ una storia fatta di uomini, di singoli, di volti avvizziti e rovinati dalla fabbrica, emarginati in uno spazio al limite della civiltà, mai raccontato – contro la cui rimozione alza la voce questo film.
“Il mio è un documentario sulla continuità e sul mutamento” dichiara Gravayat “a partire dal quartiere, spazio fisso di riferimento, e da una fascia sociale stabile, quella più povera, ho voluto mostrare la trasformazione, il movimento e le rotture che hanno accompagnato la popolazione e l’abbandono di Gerland, raccogliendo le storie di chi vi ha vissuto” .
Il percorso è frammentario anche negli stili: fiction, documentario, testimonianza, materiale d’archivio, improvvisazione e recitazione si sovrappongono – e alla stessa maniera s sovrappongono tante voci ognuna diversa dall’altra, le storie degli uomini del sottosuolo, che vivono ai confini della civiltà.
Una collezione eterogenea, quella di Garayat, che deve il suo frammento più importante ad una convergenza casuale: “Ho lavorato sul tema dell’immigrazione e dell’esilio in Francia per 10 anni, ma fu solo molto tempo dopo che ebbi la fortuna di raccontare a un amico montatore delle mie ricerche. Fu così che mi riferì della sua militanza giovanile all’interno dello sciopero degli immigrati di Gerland, per i quali realizzò un filmato. Andammo a casa di sua madre a cercarne le bobine, e spolverammo metri e metri di pellicola seppelliti nel solaio. Filmati in Super8 realizzati al tempo per spiegare al quartiere le rivendicazioni e le ragioni della protesta, ma per me un documento inestimabile e futura chiave di volta del mio film”.
Piuttosto che alla sua genesi, tuttavia l’opera deve la propria originalità ad una scelta ardita nell’uso del bianco e nero. Il colore, tratto distintivo fra il materiale d’archivio e quello girato dal regista, è saggiamente annullato in alcune sequenze con l’intento deliberato di spingere lo spettatore a confondere a sovrapporre i piani temporali, come a saldare i frammenti di queste storie che si accavallano, a creare anacronismi deliberati, connessioni e cortocircuiti fra passato e presente, fra recitazione e testimonianza.
Complessivamente, un tentativo mirabile di riabilitare il cinema e farlo assurgere alla funzione di denuncia e testimonianza che gli attribuiva Godard nel suo opus magnum, le Histoires du Cinema. Capace di far riemergere dal calderone della storia le scorie rimaste incollate sul fondo, i piccoli frammenti dell’umanità periferica che popolò i sobborghi francesi delle prime rivolte operaie, pecca per i tempi lunghi, la frammentarietà, la sperimentazione eteroclita che lo rendono un film di difficile fruizione. Forse, il passo verso la maturità di Gravayat arriverà nel coniugare impegno e sperimentazione con dei ritmi e un’estetica più vicini a quelli dei documentari mainstream. Lo aspetteremo ansiosi al varco del prossimo TFF.