(di Neri Migliaccio)
La traduzione inglese Fragments oscura una ricchezza semantica che il documentario di Sylvain George deposita in ogni fotogramma. Les éclats sono, è vero, i frammenti, ma i frammenti di una esplosione – sono i pezzi ancora in movimento: detriti-durante-la-deflagrazione. I frammenti ritagliano la vita migrante a Calais: maghrebini, afghani e centroafricani, baraccopoli e incursioni delle forze dell’ordine, i desideri di un tempo migliore e la cancellazione delle impronte digitali nel fuoco delle braci accese. Gli idiomi si parlano uno nell’altro (arabo, francese, inglese) e i corpi sono come trascinati nello spazio: fuga dalle forze dell’ordine, fuga dai paesi in guerra, ricerca di un luogo in cui vivere. La prima esplosione – l’abbandono della propria terra – non ha ancora estinto le movenze cinetiche dei frammenti umani.
Tutto è girato con una piccola DV e un piedistallo, fisso, a serrare l’immagine fotografica nella sua cornice. L’uso sistematico del jump-cut e del fermo immagine esaltano il rapporto sintagmatico fra i frammenti, separandoli e localizzandoli nell’immagine-tempo del film. Le schermate nere intervengono nella stessa direzione, a separare più grossi éclats e accorpare così i più piccoli in macrosequenze di diapositive animate.
Il racconto del documentario – ci dice George – non segue la sintassi narrativa tradizionale e rompe con la linearità delle cause e degli effetti. La narrazione di Les éclats apre una temporalità nello spazio dell’esplosione: sono i frammenti in movimento a costruire una rete di relazioni dialettiche e organiche, dove ogni immagine si riversa una sull’altra. Una scatola abbandonata in mezzo all’erba di un campo-accampamento (merce di un tempo trascorso) recita sul fronte Le Flamboyant – un baluginio esplosivo abbandonato che si connette con il titolo dell’opera, con le ansie di rivolta, con la speranza di una luce improvvisa che illumini il bianco e nero dello sfruttamento. Così i calzini abbandonati sui rami sono gli stracci della storia che lo sguardo della camera cattura per costruire un’immagine degli sconfitti – gli indumenti abbandonati compongono una costellazione con i volti e falangi bruciate dei migranti. Vediamo un frammento luccicante, e perdiamo di vista per un attimo tutto il resto – fino a quando non siamo in grado di far conflagrare tutti questi frammenti, e cogliere il loro valore universale: il racconto di un migrante diverrà il racconto di tutti i migranti, il porto di Calais sarà tutti i porti di tutte le partenze per tutte le terribili disavventure dei profughi del terzo mondo.
Non c’è retorica perché la redenzione dell’immagine non ha fini umanitari – i diritti dell’uomo non hanno più senso a Calais, a Lampedusa – ma puramente politici. Sono le condizioni sociali e i rapporti di forza fra dominanti e dominati a essere scoperti, oltre il buonismo che spesso attraversa le sinistre europee, oltre il razzismo ideologico delle nuove destre. I linguaggi audio-visivi dei mass-media sono decostruiti attraverso la plasticità dell’immagine e il dinamismo sperimentale del montaggio: e il senso-già-dato da giornali e televisioni si sgretola a partire da un uso alternativo dell’immagine. La sovversione formale diventa sovversione politica, e viceversa.
Il frammento non è inerte ma vive ancora, è cinetico e conserva nell’istante della sua massima entropia un’energia dialettica dirompente. Le relazioni fra una sequenza e l’altra – il montaggio di ogni frammento – e i legami fra un fotogramma e l’altro – il montaggio in ogni frammento – assicurano all’opera un’esistenza pulsante ed energetica, mai stabile. Il cinema, ancora una volta, è “un flusso associativo di immagini interrotto dal loro mutare”. Ogni visione del documentario deve tradursi in un’esplosione in scaglie dialettiche, in una rivolta: Ma révolte, Ma gueule, mon nom.