(di Francesco Migliaccio)
Le quattro stagioni, l’aeroporto di Malpensa, i corpi dei viaggianti, il transito e la vita.
Il Castello è un’opera di meccanismi e di movimenti. Il meccanismo non ha mai un inizio, perché funziona costante e non può mai arrestarsi. Il movimento inizia sempre, improvviso palpita per un attimo, poi scompare: è intermittente. Ogni giorno, a Malpensa, alcuni movimenti si insinuano nel meccanismo – spesso nessuno li nota.
Il meccanismo vive di amministrazione burocratica e di leggi internazionali (chi ha il diritto di entrare in Italia e chi no), si ramifica nei controlli (contro la droga, contro il rischio di attentati), si materializza nel dominio fisico della polizia sui viaggianti sospetti e nell’intimidazione psicologica delle perquisizioni. Il meccanismo deve essere impeccabile nella gestione del traffico aereo e deve eliminare tutte le interferenze – come le voci degli uccelli quando scivolano nelle comunicazioni radio.
Il movimento sorge nelle pieghe del meccanismo e nelle sue falle: è la contingenza di un volto, la casualità dischiusa da un’aragosta che si libera dalla scatola dove per ore è rimasta imprigionata, l’imprevisto di un gesto non conforme ai protocolli. Il movimento è la contingenza che trova un varco nella necessità del meccanismo. Il Castello riesce nello stesso tempo a descrivere il meccanismo e a cogliere il movimento.
Come è possibile che il potere si lasci osservare, manifestando le dinamiche profonde che lo costituiscono? Gli autori rispondono che spesso le immagini sfuggono via – proprio attraverso le pieghe dei movimenti – a patto di riuscire a cogliere il loro apparire improvviso. Coglierlo prima che l’aragosta abbassi le chele e la scatola sia di nuovo chiusa. La cattura dell’immagine-movimento richiede una costanza ostinata, ai limiti dell’ascetismo estetico: un anno di lavoro, una pausa di due settimane dedicata al montaggio ogni quindici giorni di riprese. Le illuminazioni immediate diventano opera solo attraverso un costante lavorio di accumulo, levigatura e sottrazione.
Denunciare l’enormità del potere e della sua amministrazione capillare ha sempre un rischio: se hai ragione – se la tua teoria vince – allora hai perso tutto: al controllo non c’è via di fuga, tutto è soffocato. Il Castello evita la totalità e l’assoluto (una vittoria teorica totale che si rovescia in una sconfitta politica altrettanto totale) e va alla riconquista delle fratture, degli spazi vuoti. È vero, il sistema è perfetto, ma non del tutto: forme di resistenza ci sono ancora, e vanno colte.
Una signora vive in aeroporto, come l’edera si abbarbica al luogo. Nel bagno ha collegato un fornello elettrico e nella pentola calda adagia i tranci di pollo su un soffritto di lardo e cipolla. Nei lavandini si taglia i capelli, si fa la tinta. L’utopia si apre quando i luoghi vengono vissuti al di là delle strategie di chi li ha realizzati. Oltre i comportamenti previsti e programmati. La resistenza – in un certo senso – sta nell’usare le cose del mondo in modo imprevedibile. Malgrado tutto, le lacerazioni ci sono anche a Malpensa.