Hoon Jang 137' Corea del Sud - 2017 Festa mobile
La Corea è un paese che ha dovuto attraversare diversi periodi complicati nell’ultimo secolo, dalla colonizzazione giapponese fino ad arrivare alla situazione di instabilità odierna. È però raro che il cinema coreano contemporaneo vada a raccontare suddetti periodi bui. Hoon Jang lo fa con questo film, che racconta le vicende occorse durante gli scontri a Gwangju tra manifestanti ed esercito nel 1980.Come mezzo per raccontarle sceglie gli occhi di un ingenuo tassista.
Kim Man-seob è infatti il perno attorno a cui ruota l’intera pellicola. Song Kang-ho, attore ormai noto anche al pubblico occidentale, è riuscito, grazie alla sua grande espressività, a rendere un personaggio in realtà menefreghista, tirchio, cinico e sempre pronto ad abbandonare la lotta, come qualcuno per il quale si nutre simpatia e per il quale si fa il tifo. Il percorso di crescita di Kim è alla base del film ed evidenzia uno dei temi centrali della pellicola: il bisogno di unità e di altruismo del popolo. Il tassista di Seoul che pensa solo a se stesso, a sua figlia e al suo taxi si scontra con la realtà di Gwangju, città in macerie, ma i cui abitanti non lesinano mai nel donare o nell’andare in soccorso di qualcuno, spesso trasportati più dall’istinto che dalla ragione. Kim ne rimane sconvolto, chiedendosi più volte come mai i cittadini non si facciano semplicemente i fatti propri. Una metafora esplicativa del rinnovato atteggiamento di Kim è data dal rapporto col suo taxi. Al nostro protagonista viene spiegato che, per quanto possa essere attaccato a quella vettura, c’è bisogno di cambiarla per farla andare avanti, un po’come c’è bisogno di cambiamento nella sua statica realtà in cui china la testa ed accetta qualsiasi cosa. Per arrivare poi al finale dove Kim metterà a rischio non solo la sua vita ma soprattutto il suo taxi per la salvezza del prossimo.
La violenza della guerriglia viene gestita nella pellicola con un climax ascendente. Inizialmente pare minima e soltanto sullo sfondo della storia principale, forse perché così appare al protagonista, poi però gli scontri passano al centro della scena e possiamo vedere delle scene gestite con la giusta crudezza. L’escalation di violenza aumenta ancora nelle battute finali, dove però sta allo spettatore decidere se si tratti di buona rappresentazione di una brutalità estrema o se si sfoci invece nel melodramma un po’ stucchevole. La narrazione è infarcita di gag e scene comiche ben realizzate in quanto molto semplici e naturali, rese ancor meglio dalla bravura degli attori. Questi siparietti divertenti sono presenti sia nella parte iniziale più scanzonata, sia durante i momenti più critici. Ciò dimostra sia la forza di un popolo che, seppur oppresso, riesce comunque a ridere, sia l’abitudine dell’essere umano ad abituarsi e a normalizzare qualsiasi situazione. Un aspetto che colpisce è legato all’atteggiamento dei militari. Questi ultimi non fanno che chiamare tutti quelli che picchiano “comunisti”, che si tratti di studenti, giornalisti o tassisti. Il regista vuole far capire come per loro quello sia semplicemente un epiteto vuoto, senza significato, e come basti una semplice parola per scagliare un uomo contro un suo simile.
Un secondo messaggio importante del film è dato dall’importanza della diffusione delle notizie. Durante la pellicola vediamo diversi personaggi pronti a morire per permettere che la verità venga a galla, mentre ci viene mostrato un potere che cerca in tutti i modi possibili di insabbiare i fatti e di manipolare la realtà a suo favore. A livello registico possiamo notare, durante le scene più violente, diversi stacchi sulle macchine da presa intente a filmare, questo riesce a restituire allo spettatore un senso di importanza superiore delle immagini riprese dalle telecamere rispetto a quelle che non lo sono e che il sacrificio di chi lotta in quel momento non sarà vano. Ci viene fatto capire in più punti come il controllo dell’informazione sia cruciale per il potere. Tutti i giornalisti coreani che appaiono nel film sono ben caratterizzati, sia quelli coraggiosi, sia i collaborazionisti. Al contrario, la caratterizzazione di Jurgen Hintzpeter è meno efficacie: reporter tedesco e coprotagonista della storia, la cui psicologia e le cui motivazioni vengono sviscerate però troppo poco, finisce per diventare solamente il motore degli eventi in cui sarà coinvolto il tassista Kim.
Parlando dell’aspetto visivo tra i colori più ricorrenti possiamo notare il giallo, soprattutto quello della camicia del protagonista, il cui colore acceso viene utilizzato per far spiccare ancora di più Kim all’interno della scena, visto che tutti gli altri personaggi indossano indumenti dai toni molto spenti. Ma il colore predominate rimane sicuramente il verde, sia quello degli alberi durante le scene ambientate nella foresta, sia in città dove spicca sul grigiore generale grazie alle divise dei militari e soprattutto al colore dei taxi.
Interessante è inoltre la scelta della luce. Durante le scene a Seoul, e fuori da Guangju in generale, notiamo un’illuminazione calda e rassicurante, che però si fa sempre più cupa e fredda man mano che ci si avvicina alla zona dei conflitti. Lo spettatore rimane colpito da un tono di luce a cui non è più abituato quando il tassista scappa dalla città e l’illuminazione torna quella iniziale. Questo serve a far capire come, anche appena fuori dal centro degli eventi, la popolazione ne sia totalmente disinteressata credendosi al sicuro.
Una nota dolente del film è invece la durata: più di due ore e mezza sono davvero troppe e nel finale si ha la sensazione che la storia proceda stancamente e con una narrazione un po’ sfilacciata. Una ventina di minuti in meno non avrebbero fatto male.
Luca Dell’Omarino