Terri, film di Azazel Jacobs, funziona perfettamente come esemplare da cui ricavare un paio di considerazioni in generale sui film del TFF.
Dunque: Terri è un ragazzo ciccione, veste sempre in pigiama, vive con suo zio, che soffre di demenza senile, e non sa che fine abbiano fatto i suoi genitori.
A scuola è oggetto di scherzi a causa della sua obesità, e non ha amici.
Il preside della scuola si affeziona a lui, prova ad aiutarlo, e a parte qualche piccola crisi dovuta all’esclusività del loro rapporto promessa dal preside a Terri, e poi disillusa, la loro amicizia va a gonfie vele, e il preside si dimostra un portatore sano di saggezza americana.
Terri vede durante una lezione di economia domestica un ragazzo masturbare una ragazzina, Heater, per cui Terri ha un debole.
Nel tentativo di salvarla dall’espulsione si instaurerà tra loro un rapporto che valicherà i confini abituali dell’amicizia (per quanto non ci sarà rapporto sessuale).
Insomma, la commedia è godibile, ogni tanto si scade un po’ sul retorico, ma dagli americani ce lo si deve aspettare. Ma quello che mi fa questione è altro. È tutto perfetto, anche nell’imperfezione.
Il preside è una figura curiosa: offre aiuto a Terri, e sembra avere a cuore il ragazzo, e pur di farlo sentire speciale si inventa qualche frottola. Quando Terri scopre la bugia il preside fa una lunga geremiade attraverso la quale finisce con l’ammettere di aver sbagliato. Il preside è un padre inattaccabile, un abominevole genitore che tiene così tanto all’immagine di sé di persona irreprensibile che, pur di non sfigurare, si dimostra così remissivo e pieno di cure nei confronti di Terri da risultare, in tutta la sua mansuetudine, di una violenza incredibile. Ma perlomeno Terri ha a disposizione una figura paterna solida.
Ma ci sono anche eventi troppo perfetti, ad esempio: a Terri basta fare una buffonata con gli occhiali per attirare l’attenzione della ragazza che aveva salvato dall’espulsione, Terri nella sua non certo facile situazione familiare riesce a destreggiarsi abilmente (a differenza della sua goffaggine fisica), le cattiverie dei compagni si focalizzano sulla ragazza dopo che è stata scoperta a farsi masturbare, e Terri passa in secondo piano come capro espiatorio della scuola, e avanti così.
Questo elemento di perfezione, e in fin dei conti di ingenuità, dove tutto sommato il karma terrestre sembra sempre indirizzato in vantaggio del protagonista, il quale si comporta come se sapesse di questa preferenza karmica, mi ricorda le ultime parole di un saggio di Wallace “I vecchi rivoltosi postmoderni rischiavano “Ooh!” scandalizzati e gridolini di orrore: shock, disgusto, indignazione, censura, accuse di comunismo, anarchismo, nichilismo. Oggi i rischi sono diversi. I nuovi ribelli potrebbero essere artisti pronti a rischiare lo sbadiglio, gli occhi al cielo, il sorriso di sufficienza, le strizzatine d’occhio, la parodia dei fini umoristi, i “Dio mio quant’è banale”. A rischiare di essere accustai di sentimentalismo, di melodrammaticità. Di eccessiva sprovvedutezza. Di debolezza. […] Oggi gli scrittori giovani più impegnati sembrano davvero arrivati a una specie di ultimo estremo capolinea. Immagino che ciò signfichi che dobbiamo tutti trarre le nostre conclusioni. Che siamo costretti a farlo. Non fate i salti di gioia?”
Per quanto Wallace qui parlasse specificatamente di narrativa, il discorso non è difficilmente trasportabile sul cinema.
In un certo senso c’è l’esigenza di tornare a parlare di temi che fanno “storcere le bocche” “sbuffare” o “alzare gli occhi al cielo”, come ad esempio l’amicizia, il rapporto padre-figlio, la solidarietà, eccetera (mi sto annoiando anche io).
Questi sono i temi su cui, la grande festa postmoderna, sembra aver cacato e pisciato e riversato litri di motti e lazzi e sputazzi, ma ora, nel momento dei postumi, abbandonato il nostro animo da leoni,e tornati un po’ coglioni, ne sentiamo la mancanza.
E tutto questo va bene. Ma il ritorno alla coglionaggine non può avvenire alla velocità di un colpo di pistola, e soprattutto, non ci si deve dimenticare dei postumi.
Non possiamo più essere così lucidi. Non possiamo più essere così trasparenti e limpidi come gran parte dei film che ho visto pretendono di essere.
Siamo coglioni perché siamo nudi, perché sentiamo che qualcosa è andato storto alla festa, che abbiamo esagerato, ed è questo il momento in cui si fa la solenne promessa di non toccare mai più un goccio d’alcool. Ma è falsa, e tutti sanno che è falsa e provvisoria. In Terri, e lì come in molti altri film, non c’è provvisorietà, è tutto definito, chiaro: Terri avrà la sua vita da ciccione and that’s all folks!
Ma non funziona così. Almeno non per me. Ad esempio: perché Terri dovrebbe accettare l’aiuto del preside senza il minimo rigetto? E dire che Terri non lo ha mai richiesto, magari ne aveva bisogno: ma perché non sentire questo aiuto come una violenza? Tant’è che lo stesso Terri dirà al preside “Preferirei non dover avere bisogno del suo aiuto.” Era forse questo un elemento che sarebbe stato interessante approfondire di Terri: essere grasso suo malgrado. Di questo per tutto il film non si ha notizia. La potenzialità esplosiva del trauma dell’obesità, per altro molto sentito in America, viene disinnescata attraverso il suo fagocitamento in un ambiente in cui Terri riesce a convivere con se stesso, malgrado la sua obesità.
Alla fine del film ami tantissimo il ragazzone, pensi a quanto è figo il preside, pensi che la ragazzina bionda sia una stronzetta, ma in fin dei conti normale per la sua età, e che l’amico di Terri sia un buon tempone scanzonato.
È tutto definito, perfettamente levigato, non sembra un quadro che ci si aspetta alla fine della festa, avrei preferito: un ragazzone bisognoso di affetto ma misantropo, un preside incapace di tenere una posizione autorevole e democratica allo stesso tempo, una ragazzina stronza che si diverte a prendere per il culo Terri nonostante abbia un fratello con lo stesso problema a cui è molto affezionata e un figlio di una famiglia disfunzionale che si avvicina a Terri perché gli ricorda l’orso Yoghi.