(di Simone Traversa e Francesco Migliaccio)
Gli spunti.
Una ragazza dell’Oregon – non ha mai avuto nome, o l’ha dimenticato – si schianta con la sua macchina e perde conoscenza. Bionda ed esile, dai movimenti poco eleganti e uno sguardo di ghiaccio, esce dall’auto coperta di sangue, inconsapevole di quanto sia avvenuto.
Si addentra nel bosco e da Alice postmoderna si lascia trascinare in un’esperienza psichedelica e allucinata. Una vecchia vestita di rosso la guarda negli occhi senza mai parlare – le labbra increspate da un sorriso forzato e inquietante. Un pupazzo verde non smette di seguirla e ama nascondersi nelle docce. Un camionista asmatico non parla mai e le da’ un passaggio – prima di svenire in un parcheggio di provincia dopo aver urinato fango. Un uomo viscido e biondiccio viene sorpreso mentre si accoppia con una ragazza identica alla protagonista. Le due si guardano e sorridono, mentre dalla loro bocca esce un liquido grigiastro.
Le immagini sono sbilenche, la camera non è mai ferma e gli zoom si ripetono contro ogni gusto estetico. I contorni del bosco in cui si aggira la protagonista sono spesso sfuocati, il montaggio e compulsivo e intermittente – a tratti davvero brutto. Anche la musica è stridente, spesso insopportabile. The Oregonian è un film eccessivo e fastidioso. Il pubblico in sala ride – eppure non c’è nulla da ridere, Lee Reeder non sta giocando.
Lungo il suo sentiero allucinato, la ragazza uccide diversi uomini. Ha investito un adulto e un bambino in occasione del suo incidente e assistiamo all’assassinio del suo stupratore nella seconda metà della pellicola. Tre figure maschili sono così eliminate: colui che l’ha posseduta (l’uomo-marito), l’individuo che ha investito (l’uomo-padre: lo chiama daddy a più riprese) e il bambino (l’uomo-figlio). Mentre intorno a lei alcuni volti femminili comparsi dal nulla urlano con un sorriso paralizzato sul volto. Un quarto uomo – un compagno della protagonista, un suo amante forse – mostra i segni dell’evirazione. Non c’è proprio nulla da ridere. Ogni critica di ordine morale o di carattere stilistico ha inevitabilmente un sapore stantio e non sta in piedi di fronte alle immagini infettate dalla psicosi surreale di questo horror di gender.
Un limite – insormontabile – il film lo dimostra. Esso si fa strada nel finale: non è il caso di rivelarlo. Stia attento lo spettatore al gioco fra livelli di realtà proposto dal regista. Un gioco – questo sì – che ha un’aria ormai consunta. Lee Reeder si è accorto forse di aver fatto troppo sul serio e proprio nell’ultima scena rinnega il suo mostro con un passo indietro. Ancora una volta il nostro mondo – la provincia americana e i suoi orrori – è salvato da una critica radicale e folle.
I contraspunti.
Che dire. Il film era alle 9 15 del mattino, orario particolare per una pellicola descritta dal programma del TFF come “horror indipendente” ammiccante a Lynch. Con me un compagno/guida per le lande cinematografiche del TFF. Scena iniziale, io mi giro verso di lui, in realtà non ce ne sarebbe stato bisogno, ma lui dice “bellissimo”, o una cosa simile.
Impressioni finali? Se almeno un film di Lynch lo si ha visti, il paragone credo sia inevitabile. Un mondo realistico, contaminato da improvvise apparizioni improbabili, personaggi che sorridono, o meglio ghignano feralmente, pupazzi verdi con un occhio mezzo staccato, flashback e disturbo sonoro ad altissime frequenze (mancano i bassi tanto amati da Lynch): il risultato è un film folle, ma che riesce, se l’intento era di puntare l’obiettivo su un ipotetico mondo onirico.
Tutto bene, grandioso (almeno per me) fino alla fine.
Per spiegare perché la fine lascia un po’ così, con un sorriso di insoddisfazione, bisognerebbe spoilerare, cosa che eviterò di fare.
Per non influenzare la vostra eventuale visione dirò questo: è come se il regista ci avesse raccontato una storiella incredibilmente avvincente, molto allusiva, e poi giunto alla fine non avesse resistito alla tentazione di spiegarci l’allusione. Questo mi ha infastidito. Per due motivi. Primo: si dimostra una scarsa fiducia nel proprio pubblico se, senza che ve ne sia stata esplicita richiesta, si spiega la propria storiella. Secondo motivo: il finale mostra e impone l’interpretazione da dare al film, mossa che rischia di diventare una pretesa assolutistica da parte del regista sul senso del film.
Non che il regista non possa farlo, d’altronde è lui il padre del film, ma forse sarebbe stato il caso di lasciare il proprio figlio più “libero”, rischiare di sottoporlo ad interpretazioni che potessero deviare dall’idea paterna iniziale, che in definitiva si è trasformata in idea paternalistica, della serie “per me tu dovevi essere questo e
Questo sarai”.
Lo so, forse detto così pare tutto molto aleatorio, ma non voglio davvero rivelarvi nulla, vorrei solo cercare di darvi delle griglie, molto fragili, con cui poter eventualmente leggere il film o, in alternativa, data la loro fragilità, distruggerle e proporne delle altre.
Vorrei però lanciare qui altre due possibili prospettive sul film, che potranno essere integrate o demolite: primo, c’è una scena, in cui un uomo ciccione, proprietario di un furgone su cui la protagonista è salita nella speranza di trovare qualcuno disposto ad aiutarla a trovare un telefono per chiamare i soccorsi per un incidente di cui lei è l’unica sopravvissuta, ebbene, quest’uomo ciccione, ferma il veicolo e scende per pisciare, totalmente incurante delle preoccupazioni della protagonista. Lo schizzo urico inizialmente presenta la colorazione tipica del piscio comune, poi si trasforma in un fiotto di sangue, ed infine in una sostanza nerastra che potrebbe esser petrolio. Durante la pisciata viene montato un pezzo di qualche secondo in cui si vede sventolare una bandiera americana sbrindellata. A fine pisciata l’uomo ciccione cade riverso a terra come un sacco di, scegliete voi se essere (e)scatologici o meno. Io, personalmente, dato anche il titolo del film “The oregonian”, ci leggo una non troppo velata critica ad un certo stile di vita americano, della serie: ingrassa, inquina schiatta; e la conseguente insensibilità e assenza di empatia umana che comporta quello stile di vita (in realtà l’uomo grasso non morirà, ma comparirà improvvisamente dopo che la protagonista proverà a mettersi alla guida del furgone e dirà “Sto bene. Forse ho mangiato troppo a colazione.”)
La seconda prospettiva alternativa ruota attorno ad un elemento su cui io e il mio compagno del TFF ci troviamo in semi-disaccordo: la lettura riguarda una possibile riproposizione di tematiche legate al femminismo. La nostra protagonista ha un rapporto col sesso, e in particolare con gli uomini, a dir poco conflittuale. Nel corso del film la si vede uccidere un uomo, un omaccione biondo che si scopa il suo cadavere (è un film strano), cadavere che ha un’apertura sulla schiena nella quale l’uomo ciccione (quello del furgone) ficcherà un’omelette (un alimento di cui è particolarmente ghiotto) e la mescolerà con del liquido (non ho capito cosa sia) che versa da una tanica molto simile a quella dove si mette la benzina. Ma lei è anche la responsabile (almeno così pare) dell’incidente che ha causato la morte di un bambino e di un uomo (probabilmente il padre –questo non è spoiler perché si tratta dei primi 5 minuti di film, tranquilli-). C’è, inoltre, una certa attenzione verso l’organo di riproduzione maschile: l’uomo ciccione ha sul cruscotto dell’auto una polaroid di un uomo con scritto “Live it” “vivilo” sulla parte bianca, che di per sé non sembra significare nulla; quest’uomo ha però fattezze simili all’uomo ciccione, e la protagonista lo incontrerà in un fabbricato, assieme ad altri personaggi che bevono una strana bevanda (latte e birra? Sperma e birra?), il quale presenta lo stesso sintomo venereo del suo quasi sosia ciccione: entrambi perdono sangue dal pene. Quest’uomo ha anche un tatuaggio sull’avambraccio, una scritta: “Live it”.
Qui il mio compagno cinematografico ci legge l’evirazione, per quanto l’atto dell’evirazione non si veda mai. Io piuttosto ci vedo una sorta di malattia congenita, una sifilide, magari simbolica e morale, più che fisica, che affligge il maschio. Malattia che contamina e inquina, non solo la figura femminile, ma anche il mondo circostante. Se volessimo forzare: il sistema capitalistico è figlio di una mentalità fallocratica, violenta ed egotica. Ma questo riguarda ambiti ed interpretazioni assolutamente opinabili.
Resta da dire se è un film consigliato. Assolutamente. Stabilite voi se sì o no.