Carmit Harash – 2015
82′
Francia
TffDoc/Internazionale
In 85 minuti Carmit Harash racconta dalla sua prospettiva la crescente tensione culturale ed etnica in Francia tra il 2012 e il 2015. Tramite interviste a cittadini francesi di origini estere, alternate a sequenze di vita privata, Harash esplora la possibilità che si vadano configurando le premesse di una vera e propria guerra.
Il focus critico è la contraddizione, reale e supportata da una poco velata ipocrisia, tra i valori classici della laicità e tolleranza del popolo francese (quello bianco e borghese) ed il fallito processo di integrazione dei migranti, fino all’apice (in chiusura) dell’attentato a Charlie Hebdo. La retorica contro la borghesia bianca intellettuale pervade tutta la pellicola e viene ripetuta con diversi stratagemmi, molti dei quali divertenti e d’impatto: un esempio, il compagno della regista le recita un’intensa poesia di Baudelaire, a cui lei contrappone in una scena successiva il testo tradotto di Toxic di Britney Spears – un rovesciamento ironico della pretenziosità degli intellettuali francesi.
La retorica della regista risulta però ripetitiva e non approfondita. Seppur presenti accenni di problematizzazione, come quelli sulla struttura, velatamente razzista, del linguaggio della “accoglienza” bobo, all’interrogativo di fondo non viene data risposta. Neanche l’esperienza personale della regista legata alle sue origini (è emigrata da Israele negli anni ’80 a causa del conflitto) giustifica il taglio polemico del documentario. In una delle scene finali la critica rasenta la spocchia: la regista incontra un (finto) docente universitario di filosofia e dopo un approccio aggressivo lo invita per una lunga e superficiale chiacchierata da bar sulla distanza dell’accademia dal “mondo reale”. L’intento parodistico che colpisce nel segno un problema reale, ovvero il divario tra mondo accademico e cittadinanza sulla tematica scottante dell’integrazione culturale, si risolve in una contrapposizione banale tra un “loro” (l’intellighenzia bianca borghese) e un “noi” (i francesi di altre etnie ed estrazione sociale) che appiattisce la realtà delle contraddizioni politiche e culturali contemporanee.
La scelta delle tecniche di ripresa e del montaggio non è sempre felice: le riprese da smartphone infastidiscono dopo i primi 20 minuti, l’alternanza con i fermoimmagine, seppur esteticamente appagante, non aggiunge nulla dal punto di vista documentaristico. Resta ambigua la posizione della regista sul giornalismo contemporaneo, fatto appunto di riprese da smartphone e scarso approfondimento critico. Se per quasi tutta la pellicola verrebbe spontaneo inserirla in questo filone, la scelta di approccio nel finale spiazza e risulta, a mio avviso, apprezzabile. Harash rifiuta infatti l’approccio da cronista sull’attentato di Charlie Hebdo, preferendo concentrarsi sulla reazione in diretta di un autista di autobus.
Viene da chiedersi quanto valore abbia il documentario nel panorama generale di riflessione sulla nostra epoca storica, anche alla luce dei recenti attentati terroristici. La possibilità di filmare e raccontare da una prospettiva alternativa alle narrazioni dominanti non è automaticamente garanzia di profondità di analisi: in questo senso il documentario appare esageratamente ambizioso. È dubbio anche quanto la regista sia stata in grado di anticipare, sulla base del clima sociale in Francia nel 2012, i risultati di un mancato processo di integrazione. Proprio nell’ambito accademico che viene tanto criticato, infatti, questo genere di riflessioni sono presenti già da molto tempo.
L’opera non risulta dunque foriera di approfondimenti critici, seppur godibile nell’ironia che la pervade. Resta da valutare come Harash porterà avanti la propria riflessione su Parigi nei suoi futuri lavori: auspicabilmente l’elemento personale s’integrerà meglio con l’analisi critica della contemporaneità.
Alessio Bucci