Sezione TFF: Torino 30
Categoria TFF OFF: 50 sfumature di sfiga
Shell è una ragazza di 17 anni che si chiama così perché “shell” vuol dire “conchiglia” e non “come la benzina”. Lo mette in chiaro lei. In effetti si tratta di un dubbio plausibile, visto che il film si svolge in un benzinaio.
La storia ruota attorno a Shell e al padre Pete, che vivono da soli al distributore di benzina da quando la mamma della ragazza li ha lasciati, 13 anni prima. Oltre a loro ci sono i (rari) clienti, due dei quali particolarmente affezionati: un uomo divorziato che passa dal distributore una volta alla settimana e parla con Shell dei propri figli affidati alla moglie, e Adam, un giovane ragazzo che talvolta si ferma a fare benzina sulla strada per il lavoro. Anche i cervi che vivono in quella zona sembrano avere un ruolo nella storia, forse a suggerire parallelismi tra la loro vita e quello che succede ai personaggi. Ma questa è solo una proposta che qui accenno a chi ha già visto o vorrà vedere la pellicola.
Il film di Scott Graham (UK, 2012) – che per l’ambientazione nel vasto e solitario (e bellismo) paesaggio delle Highlands scozzesi mi ha fatto ricordare Either way, premiato al TFF nel 2011 – riesce bene a trasmettere il senso di solitudine, fisica ed emotiva, dei suoi personaggi, che sembrano bloccati al distributore da barriere invisibili. E forse, proprio per questa solitudine che li attanaglia, paiono particolarmente consapevoli dell’importanza dei rapporti interpersonali. Il rapporto tra Shell e Pete è infatti segnato dalla dipendenza fisica che hanno l’uno dell’altro, oltre che dal complesso di Elettra che sembra contraddistinguere la visione che la ragazza ha del padre (lo confesso: all’inizio ho pensato fossero una coppia invece che padre e figlia, anche a causa della relativa giovane età del padre). Allo stesso modo, le chiacchiere con i clienti danno l’impressione di essere molto importanti per riempire il vuoto della routine: sia per Shell che per chi frequenta abitualmente il benzinaio.
Si può dire che si tratta di un film in cui ci sono poche parole ma quelle che ci sono assumono grande significato, soprattutto grazie ai lunghi silenzi che le precedono e le seguono.
Penso sia il genere di pellicola che ci si aspetta in un Festival come quello di Torino (come suggeriscono anche le somiglianze con pellicole già presentate – con ottimi risultati – nelle passate edizioni). È un peccato che non ci fosse nessuno a “accompagnare” il film al TFF (il regista ha dato forfait all’ultimo per stare vicino al suo cane morente, come spiegato da Gianni Amelio prima della proiezione): la domanda sui cervi e il loro ruolo nella storia avrebbe avuto modo di trovare risposta.
Sara Minucci