di Bob Rafelson, USA, 1970, 35mm, 98’
Sezione TFF 2013 – New Hollywood
Siamo in America, inizio anni ‘70. Già, proprio quegli anni in cui vanno di moda i blue jeans a vita alta, i capelli cotonati, gli stivali western e smontare dalle macchine senza darsi pena di chiudere i finestrini; dove l’autostop è il vero mezzo di trasporto e una serata al bowling con amici costa cinque dollari al massimo, mancia compresa.
Siamo nelle veci di Robert Eroica Dupea, altresì detto Bobby, ex pianista figlio di musicisti benestanti. Impulsivo e scapestrato, Bobby fugge da quell’involucro famigliare carico di aspettative e rigidità per vivere come vuole lui, al momento, senza una logica precisa. Paragonabile ad un Holden Caulfield con il ghigno sardonico di chi la sa lunga, Jack Nicholson interpreta magistralmente il suo personaggio (come sempre, d’altronde), rivestendosi di una scorza dura e spaccona che racchiude una psicologia più problematica al suo interno. Bobby infatti non sa amare, né farsi amare; odia le relazioni durature, la sua frivola ragazza Rayette, i bambini e tutto ciò che potrebbe incatenarlo ad una vita stabile e colma di doveri.
Fin dal primo momento in cui fa la sua comparsa scortato dalle note di Stand by your man, non è chiaro come Robert possa avercela con il mondo, cosa l’abbia spinto a trattare la donna che gli sta accanto a pesci in faccia o ad abbandonare i tasti del pianoforte per spaccarsi la schiena ogni giorno in un oleodotto. La sua figura priva di principi è quasi detestabile, incomprensibile. Eppure, seguendo la sua caratterizzazione gradualmente, ogni cosa trova il suo posto con naturalezza: le sue battute aspre, la sua eccessiva irascibilità, il suo bisogno di opporsi e quello di sfogarsi. Perché alla fine Bobby, per quanto irragionevole sia, è umano. È la parte ribelle che ognuno di noi ha dentro di sé, quella parte che reagisce sempre erroneamente, che si lascia i problemi alla spalle e che se ne infischia delle conseguenze.
Per questo è facile immedesimarsi. Per questo il film, sebbene di per sé non possieda una trama né originale né di spessore, non annoia: viene spontaneo rispecchiarsi nella mediocrità di Bobby, in una vita piena di responsabilità che non si vogliono prendere, di genitori malati e parenti sempre disposti a denigrarti qualsiasi cosa tu faccia.
Guardando “Five Easy Pieces” mi sono resa conto che alla fine l’importante non è cosa viene raccontato ma come: per quanto una trama possa essere complessa e con uno sviluppo di un certo livello, se non è rappresentata in maniera coinvolgente ed incalzante non vale la pena spenderci sopra del tempo. E su questo Bob Rafelson è riuscito a dimostrarsi un vero maestro, usando attori del calibro del sopracitato Jack Nicholson e di Karen Black, vincitrice del Golden Globe come miglior attrice non protagonista.
Consigliato a tutti quelli che adorano la pellicola che si sgrana e scoppietta, le caffetterie americane di vecchio stampo e i finali aperti che ti lasciano così, con quel retrogusto di immaginazione sul palato.
di Sara Braghin