(di Francesco Migliaccio)
Ricordo che quando avevo tre anni i nomi di Bush e Saddam mi suggerivano entrambi un senso di pazzia crudele ed efferata – “sono della stessa pasta: due capi sanguinari”, mi diceva mia madre, “e intanto le persone muoiono.” Poi mia madre mi raccontava di quanto era bella Baghdad prima delle bombe e io immaginavo i palazzi esotici e le cupole lucenti ridotti in macerie. Avevo un po’ di paura che mio padre potesse essere chiamato al fronte, ma i grandi mi rassicuravano – “non è più così, noi non dobbiamo andare in guerra”. Fu la mia prima esperienza della guerra – fu nel Golfo.
Poi mi ricordo dei profughi bonsiaci su una strada sterrata – era un telegiornale. E anche di quella mattina in cui – poco prima di andare a scuola – avevo saputo dalla tv che gli americani lanciavano bombe su Belgrado. Infine, l’undici settembre, giocavo alla playstation con i miei amici. Poi la diretta delle torri.
Sono memorie ordinarie di una vita trascorsa senza traumi. I fatti succedevano davvero, ma a me non restava che il brusio dei commenti degli inviati, mentre correvano le immagini di contraree notturne. Se i soldati di ritorno dal fronte nella prima guerra mondiale restavano muti, incapaci di raccontare – e la letteratura nasceva nello scarto fra l’urgenza di scrivere e l’indicibilità dell’orrore – oggi sembra essere scivolato via dalle mani delle nostre generazioni lo stesso trauma collettivo e sociale che fondava quel dissidio prolifico fra la comunicazione e l’impossibilità-di-dire.
Restano i traumi individuali: le fratture nella vita privata. In quattro giorni di festival – questo articolo non può che essere appena parziale e andrebbe integrato con altre esperienze visuali – ho visto almeno tre film traumatici. Il cinema incontra un personaggio segnato da un evento e si dipana sullo schermo la storia di una elaborazione cognitiva: come dare un senso all’incidente, come ricordarselo, come risolvere i dissidi che ha squarciato. Individui senza società (fuori dalla società) cercano di fare i conti con il loro passato e la loro ferita.
In Wretched l’assenza del mondo sociale è figurata da uno scenario naturale, isolato e disabitato: una foresta americana dove il protagonista riprende i sensi dopo un terribile incidente d’auto. Privo di nome e di memoria e con qualche indizio sul suo passato recente, l’uomo ricostruisce la sua identità (e sarà un’identità forte) durante uno stentato vagabondaggio costellato da frammenti di memoria, illusioni e voci lontane. Il segmento della sua esistenza passata sarà lineare e pieno, ma solo alla fine: il soggetto si salva, l’elaborazione del suo trauma ha successo.
The Oregonian ha invece uno sviluppo più complesso. Di nuovo è un incidente che apre il film: una ragazza si trova insanguinata sulla sua auto, al limitare di un bosco oscuro, mentre la radio gracchia fastidiosa l’inno americano. Esce dalla macchina e inizia un viaggio allucinato nel bosco perduto dove incontrerà i suoi incubi, le sue paure e le ferite violente che hanno lasciato cicatrici mai rimarginate. Il film di Lee Reeder costruisce un cumulo di immagini psichedeliche e stridenti: la linea del passato si frammenta, si trasfigura in incubo e lo spettatore può soltanto cercare di costruire un’ipotesi degli shock vissuti dalla protagonista. Il cinema non è una cura, ma una rappresentazione folle del fallimento di ogni mediazione post-traumatica.
Andrei Severny si è confrontato con noi sul suo film – Condition – dove torna il rapporto fra lo schermo e il trauma individuale. Alaska è una bambina muta sottoposta a una cura psico-sonora: la dottoressa che segue il suo caso la sottomette costantemente a stimolazioni acustiche per aiutarla a superare un trauma avvenuto in uo spazio imprecisato del suo passato. Il film è un flusso di immagini e suoni che accordano la terapia con i paesaggi solitari dell’America Settentrionale dove le due donne restano isolate per almeno un mese. Al di là dei limiti che l’opera prima di Severny dimostra, è di nuovo il lavoro estetico sul trauma a dare vita allo spunto più interessante. A differenza delle prove precedenti, noi non sappiamo cosa sia accaduto: l’immagine dell’incidente è sempre sfuocata, indistinta. Una metropoli, delle luci, forse una radio della polizia. Nulla di più. Il trauma si fa intangibile, fluttuante. E, forse, privo di risoluzione.
Lo shock sensato di una coscienza redenta (Wretched), quello presente e immediato, ma al tempo stesso allucinato e condannato alla perdizione (The Oregonian), e l’assenza-presenza del trauma di Condition sono tasselli che compongono un complesso mosaico di esperienze post-traumatiche nel mondo contemporaneo. Se la condizione di solitudine individuale e di isolamento in uno spazio avulso dalla società diffonde la sua luce in tutti e tre i film, la ricerca critica deve però fare i conti con le differenze: negli scarti si celano gli aspetti più interessanti.
Nell’economia narrativa dei primi due film, il trauma ha un valore fondante: esso avvia la narrazione, fonda il gesto del racconto – senza incidente non potrebbero nemmeno esistere gli eventi. Acquisice finalmente un senso l’apertura questo articolo: raccontiamo in un’epoca in cui il trauma non si concede più direttamente – soprattutto in una dimensione collettiva. Un’epoca in cui – secondo un saggio uscito da pochi mesi – il vero trauma contemporaneo e occidentale sia l’assenza di trauma: le finzioni devono costruire artificialmente i drammi per ritrovare l’autorità di raccontare. Un trauma di finzione, tuttavia, non dischiude più la profondità storica e il dissidio estetico ancora pulsanti nel modernismo e diventa un puro pretesto fantasmagorico, un varco narrativo adatto a scatenare il rincorrersi delle immagini. In una scrittura/immagine senza traumi gli incidenti sono ancora più mirabolanti, più abnormi e invadenti – devono occultare la loro assenza con l’eccesso.
In Condition il non-darsi-del-tutto dell’evento scatenante apre una prospettiva completamente differente e il film di Severny oscura l’evidenza della tragedia poiché sposta nell’indefinito l’origine del malessere. La presenza di un trauma sommerso coglie meglio la persistente inquietudine di un mondo benestante pervaso dal mormorio degli scricchiolii, dalle apparizioni di piccole crepe. In un sistema mediatico in cui gli allarmi e le emergenze sono funzionali a un disegno strategico ben definito, l’incidente che non c’è di Condition è già qualcosa: un primo passo in obliquo.