Di Aharon Keshales e Navot Papushado, Israele, 2013, HD, 110’
Sezione Tff2013: After Hours
A seguito di una serie di macabri omicidi di bambine, un ispettore di polizia e il padre di una delle vittime si accaniscono a identificare come responsabile un insegnante di religione dall’aspetto più che innocuo. Il poliziotto da tempo cerca di dimostrare la colpevolezza dell’uomo, senza riuscirci. Il padre della bambina è pronto a tutto pur di riuscire a estorcere la confessione all’uomo, anche rapirlo e torturarlo a morte.
Trama tutto sommato classica per un thriller. Il tema della pedofilia è uno dei più ricorrenti nella scelta degli sceneggiatori, forse, perché prende di pancia qualsiasi spettatore (vedi sempre in programmazione Au Nom Du Fils). Ma non dimentichiamoci il contesto: siamo in Israele, paese al centro di uno dei conflitti più lunghi e spinosi della storia contemporanea. E come in tutti i luoghi di conflitto l’ansia e la tensione diventano parte integrante dell’individuo. Infatti, a guidare la realizzazione dei registi è stata anche la consapevolezza che «l’ansia esistenziale è alla base della nascita di Israele e viene utilizzata per definire e legittimare lo Stato». Tensione che si percepisce in maniera quasi palpabile in una delle pochissime scene di incontro tra Israele e Cisgiordania, in cui il poliziotto di fronte a un palestinese a cavallo incontrato per strada, in maniera istintiva alza le mani in segno di arresa e la risposta che si sente dare è: «Perché voi ebrei pensate sempre che vogliamo uccidervi?».
Un modo molto Tarantiniano di realizzare un thriller, humor nero e dialoghi tipici del grande maestro statunitense per un’ora e mezza che ho passato sospesa tra risate e cuore in gola.
di Eugenia Valentini